Scuola sommozzatori e reparto guastatori subacquei

NUOTATORI D'ASSALTO, GUASTATORI SUBACQUEI GAMMA E SOMMOZZATORI

Alcuni luoghi, anche senza un particolare motivo, rimangono nel cuore della gente grazie alla loro conformazione geografica, alla magnificenza dei colori che regalano e all’equilibrio che sanno manifestare nel racchiudere in sé quanto l’animo umano spesso cerca e difficilmente trova.  Altri, invece, hanno un fascino tutto loro, un’anima propria che testimonia, naturalmente, ciò che persone speciali hanno connotato, con la valenza e i fatti, al rango di santuari della memoria.  Sono dotati di un’atmosfera propria, di un palcoscenico particolare, dove le amene piccolezze della vita quotidiana si annullano per lasciare spazio allo spirito di chi ha reso famosi questi anfratti con le sue gesta, con la sua determinazione e il suo onore.

La Toscana.  Una terra molto bella e amata da moltissime persone.  Una regione ricca di interessi: dalla storia all’enogastronomia, dall’architettura ai musei di fama internazionale.   Ma è anche una terra dura, che poco regala a chi, amorfamente, approda ai suoi lidi.   Su, al nord della regione dalle parti di Viareggio, vi è un’area abbastanza brulla che arriva sino al mare grazie ad un fiumiciattolo che la accompagna dalla profonda campagna sino alla battima.

Per favorire le necessità di reclutamento e addestramento dei volontari nuotatori (in precedenza definiti palombari), fu istituita il primo settembre 1940, a San Leopoldo, nei pressi dell’accademia Navale di Livorno, la scuola Palombari-Sommozzatori, da anni patrocinata invano dal Com.te Belloni (che, di fatto, è il decano di quanti in Italia si dedicano allo studio delle discipline subacquee).

Ufficiali di tutti i corpi, Sottufficiali e Marinai di tutte le categorie che ne facevano domanda erano ammessi, dopo accurata visita medica, e venivano addestrati all’uso dell’autorespiratore ad ossigeno.  Ovviamente durante il corso la selezione proseguiva.  E il direttore del Reparto Tecnico-Sperimentale per gli studi e le indagini sulle applicazioni di nuove attrezzature era appunto il Com.te Belloni.  Egli sviluppò un autorespiratore ad ossigeno con 5 ore di autonomia (parametro legato alla calce sodata) ma con altre due ore di riserva di ossigeno per compensare, nel corso delle prime 5 ore, le normali perdite di ossigeno e le variazioni di quota che comportano diversi consumi di gas nobile.  Questo apparecchio fu la chiave di volta degli operatori dei maiali che abbisognavano di un sistema di respirazione dotato di grande autonomia.

Ma il dinamico Belloni immaginò anche una sorta di fanteria sottomarina che, marciando sul fondo del mare e dei porti, potesse insidiare le navi nemiche in rada o alla fonda.  E sulla base di questa idea la Regia Marina autorizzò appunto la creazione della scuola sommozzatori a Livorno.   Ma la visione belloniana del fante subacqueo si rivelò impraticabile.  La marcia sul fondale melmoso si rivelò improba, specie se questa superava alcune centinaia di metri.  L’arrivo, però, alla scuola di un principe ucraino naturalizzato italiano e proveniente dai corsi normali dell’accademia navale, diede un nuovo input.  Eugenio Wolk identificò gli elementi ostativi alla realizzazione dell’idea di Belloni: l’acqua, con tutti i suoi pregi, doveva essere sfruttata a vantaggio dell’operatore subacqueo, mentre sino a quel momento si era rivelata un elemento ostativo.

Immaginò una sorta di uomo-rana e nel piccolo laboratorio, creato per la manutenzione e riparazione degli ARO e degli indumenti impermeabili, si mise al lavoro con l’aiuto di volgari pezzi di gomma, forbici e colla nonché di un vecchio paio di scarpe da tennis e mise a punto un embrionale esempio di pinne.

Inoltre, anche il vestito Belloni, dedicato agli operatori degli SLC, necessitava di migliorie, dato che vestiva lasco e risultava per ingombro e peso un impedimento al nuoto.  Eh sì, perché Wolk immaginava un nuotatore che avrebbe dovuto coprire lunghe distanze per raggiungere il bastimento da insidiare, immergendosi in prossimità del bersaglio e collocare una compatta carica esplosiva all’opera viva della nave.  Al termine di questa prima fase si sarebbe dovuto allontanare, sempre a nuoto, dal luogo dell’agguato.  Era quindi necessario dotarlo di un ausilio al nuoto (di superficie e nella fase subacquea): le pinne.

Anche il vestito gommato ebbe il suo bel maquillage: per non ostacolare il nuoto e proteggere il subacqueo dall’umidità e dal freddo, nacque una muta gommata aderente al corpo ma con un’ottima vestibilità e un’adeguata ermeticità.   Di fatto stava nascendo il kit per il nuotatore d’assalto.  Infine, considerato che i tempi d’immersione erano relativamente brevi e che l’agilità di movimento dell’operatore era prioritaria, anche l’ARO dovette subire una cura dimagrante.  Nacque così l’ARO ad autonomia ridotta (max 60 minuti) i cui ingombri ben si conciliavano con queste specifiche necessità operative.   Anche la maschera risultò superflua e quindi venne eliminata.

La parte offensiva del kit fu una adeguata carica esplosiva costituita da una mina portatile.  Nacquero così il bauletto e la cimice, la seconda più piccola della prima e con una carica di esplosivo ridotta.  La Cimice conteneva circa 5 kg di esplosivo rinchiuso in un involucro di forma ovoidale mentre il bauletto aveva 12 kg di Nepulit (l’esplosivo più potente allora in dotazione) all’interno di un contenitore metallico di forma cilindrica ad estremità semisferiche.  Quest’ultimo ordigno disponeva anche di un’elichetta, posta davanti al dispositivo che, quando la nave superava i 5 nodi, iniziava a ruotare e una volta raggiunto un certo numero di rivoluzioni attivava la spoletta che a sua volta generava l’esplosione.  Il bauletto era anche dotato di ganasce che ne permettevano la collocazione sulle alette antirollio della nave, un punto particolare dell’opera viva che garantiva all’esplosione ottime possibilità di successo.

Predisposto tutto quanto sopra atteso, non restava che dare un nome a questo neonato Operatore subacqueo.  Venne quindi identificato come Guastatore Subacqueo, in breve Guastatore, da cui l’iniziale lettera G, ovvero GAMMA nell’alfabeto fonetico del tempo che utilizzava nello spelling diverse lettere dell’alfabeto greco.  E da allora GAMMA fu!

Per la cronaca va ricordato che, sino alla primavera del 1942, nella scuola sommozzatori di Livorno venivano anche addestrati gli Operatori ENNE (Nuotatori) dell’omonimo battaglione appartenente al Reggimento San Marco della Regia Marina.  La loro preparazione era sovrapponibile a quella dei Gamma, anche se era più orientata alle incursioni costiere e al sabotaggio.  Successivamente, gli Enne si fusero con i P (Paracadutisti) dando origine ai reparti NP che, per la parte lancistica, si avvalsero della scuola paracadutismo della Regia Aeronautica di Tarquinia.   Dopo l’8 settembre gli NP rimasti al Nord, tenendo fede all’onore di soldato, entrarono definitivamente a far parte della X Flottiglia MAS.

Gli operatori del GOI, oggi, traggono le loro origini per la parte incursori dagli NP, mentre per la parte subacquea si rifanno in buona parte ai GAMMA.

ARMAMENTO

Dei Gamma ci sarebbe ancora molto da dire ma, non avendo il sito una vocazione enciclopedica e non volendo appesantire oltremodo la consultazione, è giusto fermarsi qua.  Rimane solo la necessità di proporre una piccola parentesi relativa all’armamento, ai sistemi tecnici di attacco che il reparto sviluppò, spesso “in proprio”, attagliandoli alle specifiche esigenze operative.

L’operatore subacqueo aveva come arma il coltello, niente di più e questa arma bianca era data in dotazione, come per i subacquei moderni, più per essere usata in caso di emergenza, per tagliare reti, funi entro cui ci si poteva impigliare che non altro.

I due ordigni usati prevalentemente dai Gamma erano le così dette Mignatte o Cimici e i Bauletti Esplosivi. Le Mignatte altro non erano che delle cariche esplosive aventi forma semi-sferica oblunga, quasi una sorta di mezzo pallone da rugby, circondate da una sorta di ciambellina di gomma, tutt’intorno al perimetro, mediamente sgonfia. Durante l’attacco sulla chiglia di una nave, l’operatore rompeva manualmente un’ampolla contenuta all’interno della ciambella che provocava, per reazione chimica, il gonfiamento della ciambella che a sua volta aderiva alla lamiera dello scafo, per differenza di pressione idrostatica, rimanendo in posizione. Un timer, che veniva regolato a terra, provvedeva poi al tempo di detonazione della carica. Una volta in sito, il Gamma attivava il timer togliendo lo spillo di sicurezza e, solo allora, lasciava la zona d’operazione. A volte però capitava che grazie alle piccole correnti portuali e all’oscillazione dello scafo legato al piccolo moto ondoso legato alle maree, le mignatte tendevano a scivolare lungo la paratia dello scafo verso la superficie.  A quel punto l’ingegno italiano aggiunse all’ordigno vero e proprio un morsetto connesso con uno spago alla mignatta. Questo insieme faceva si che, indipendentemente dalle condizioni dell’acqua (correnti o moto ondoso), l’ordigno rimanesse in sede, in posizione nascosta, sino al momento della detonazione.

Il Bauletto era un involucro cilindrico che conteneva l’alto esplosivo ed il sistema di innesco. Nel corso del tempo cambiò un pochino la sua forma: da cilindro vero e proprio a corpo cilindrico centrale con prua e coda leggermente appuntite. Queste modifiche erano anche legate ad una forma di protezione alla possibile rimozione da parte di frogman nemici. Ma partiamo dall’esplosivo. In questo caso veniva impiegato il materiale dirompente più potente tra quelli disponibili nel novero delle forze dell’Asse: il Nepulit (o Nipolit, secondo la nomenclatura tedesca, un esplosivo dalla consistenza del tritolo ma di colore grigio). Si tratta, a grandi linee (non è questa la sede per entrare nei dettagli chimici) di una miscela bilanciata di Petn-Nitrocellulosa-Degdn e stabilizzanti. Nell’ultima elaborazione del design tecnico del Bauletto sono state introdotte tutti gli aggiornamenti tecnici ivi compresi le predisposizioni per impedire la rimozione della carica una volta messa in opera o anche il disinnesco. In quest’ultimo caso il corpo era diviso in tre sezioni che venivano assemblate nell’officina Tovo (Valdagno) e composte in un unico corpo in caserma attraverso tre tirantini a vite costruiti artigianalmente presso Ponte Alto di Vicenza.  I tre comparti erano dotati di tre detonatori. Due di questi erano collegati e attivati dalle elichette d’estremità, in maniera tale che, indipendentemente dal verso del moto, una delle due si attivasse ed iniziasse a ruotare.  Era però necessario che la nave raggiungesse almeno i 3,5 nodi e questo per due ordini di motivi: il primo era legato al fatto che all’interno di un porto non si possono generare correnti così forti da attivare l’elichetta e il secondo era basato sul fatto che alcuni approdi erano all’interno di vie fluviali, che poi sfociavano in mare aperto e l’abbinamento della velocità minima di attivazione e la predisposizione di un timer a tempo faceva si che l’esplosione non avvenisse in porto o nelle prospicenze di esso. Il tutto avrebbe consentito di far credere al nemico che la nave fosse stata silurata oppure che avesse impattato contro una mina, evitando che la parte avversa potesse identificare il modus operandi dei Gamma. Il terzo detonatore, posto nella porzione centrale del corpo del Bauletto aveva dimensioni 4×6 cm: al “sergente” o morsetto esterno, che permetteva di collegare il bauletto all’aletta antirollio, veniva collegato un cavetto che era in collegamento a questo detonatore interno. Se qualcuno avesse tentato di svitare il morsetto per asportare l’ordigno avrebbe attivato automaticamente il detonatore, provocando l’immediata esplosione.

In diverse pubblicazioni e testimonianze viene indicato un peso, del solo esplosivo, di ben 12,5 kg per il bauletto e 4,5 kg per la Cimice o Mignatta.  A parere di chi scrive tali determinazioni appaiono un pochino abbondanti, nel senso che se quello indicato era il solo peso della carica, l’ordigno in sé doveva arrivare ad un valore ponderale quasi doppio.  E se pensiamo al Gamma che rimorchia in acqua due bauletti di circa 20 kg. l’uno, il tutto appare un po’ esagerato. Dando credito invece al fatto che i pesi indicati fossero quelli complessivi delle mine è possibile ritenere che per la Mignatta la carica esplosiva era di circa 2,5 kg., mentre per il Bauletto era di 8/9 kg. Si consideri, inoltre, che la capacità dirompente del Nepulit era molto più “energetica” di quella di una normale carica di tritolo. Anche la vastità dei danni allo scafo, fra i due ordigni, era molto sensibile, tant’è che quella del Bauletto era ben tre volte superiore a quella della Mignatta. Inoltre, come anticipato, il Nepulit era più potente dei normali esplosivi e, a termine di paragone e a parità di carica ponderale, se un ordigno al tritolo poteva provocare uno squarcio di circa due metri di diametro nell’opera viva, la stessa carica con l’esplosivo tedesco provocava squarci di oltre il 50% superiori, superando i tre metri. Infine, il Nepulit, al pari del tritolo, era un esplosivo abbastanza “duro” da innescare quindi inerte, permetteva una sua conservazione e trasporto in tutta (relativa, in quanto sempre di esplosivo si tratta) sicurezza.

QUELLA GAMMA DELL'ORIETTA

In chiusura di queste note, non si può non fare riferimento all’unica donna Gamma che acquisì quella qualifica guerra durante. Inoltre, e quasi sicuramente, sino a qualche anno fa essa fu l’unica donna delle forze speciali subacquee a livello mondiale.

 

Per parlare di Donna Orietta Romano, che poi diverrà Orietta Romano in Ferraro, bisogna risalire alla fine degli anni ‘30 quando il Prof. Luigi (Ferraro, ovviamente) frequentò l’Accademia di Educazione fisica della Farnesina dal 1935 al 1937. Infatti, al termine del ciclo degli studi, Luigi si diploma Professore di Educazione Fisica e, conseguentemente, riveste i gradi di Uff.le della MVSN. Fu quindi destinato, come da sua richiesta, a Tripoli, luogo in cui viveva tutta la sua famiglia. Assegnato ad un istituto magistrale della città, li ritrova alcuni amici e conosce una bella collega triestina, diplomata all’Accademia di Orvieto, ovvero l’equivalente femminile della Farnesina. E dato che una chiacchiera tira l’altra, fu così che il 26 maggio 1939 il giornale “Avvenire di Tripoli” pubblica a mezza colonna: nel pomeriggio di mercoledì, i professori di educazione fisica: camerata Gigetto Ferraro e signorina Orietta Romano hanno celebrato le loro nozze. La stessa sera, la coppia felice è partita per l’Italia.

E iniziò così l’avventura, quasi un’epopea vera e propria, di questa donna unica e speciale allo stesso tempo che decise di condividere sempre e comunque tutte le scelte del marito a dispetto dei tempi che allora correvano e che non furono decisamente dei più facili. Italia, 1942; primi mesi dell’anno; telegramma in arrivo; destinatario Donna Orietta:  “RAGGIUNGIMI  IMMEDIATAMENTE  LIVORNO STOP.  PORTA TECO COSTUME DA BAGNO  STOP.    LASCIA  ITALO  CON  I  NONNI  STOP.      BACI  GIGETTO.” 

Questo è quanto ricevette d’emblée mentre si trovava a Roma, dove aveva preso ad abitare con i suoceri ed il figlioletto Italo di due anni. Aveva lasciato Tripoli come profuga dato che, in seguito alle vicende d’arme, il rischio di una occupazione militare della Libia era prevedibilmente imminente. In ogni caso, Orietta ubbidisce all’invito del marito e senza porre né quesiti né chiedere spiegazioni più dettagliate, parte per Livorno. Se c’è una cosa, però, che la lascia dubbiosa è quella strana richiesta circa il portare con sé il costume da bagno, dato che in quel momento non era neanche in primavera e a Livorno, il mare, era decisamente freddo.

Giunta alla stazione ferroviaria di Livorno la riceve il marito che si comporta nel più naturale dei modi e solo dopo essere giunti nel suo alloggio presso l’Accademia Navale, Gigetto svela l’arcana situazione:  “Orietta, torniamo a Tripoli, aspettiamo che il nemico la occupi e che ormeggino i loro bastimenti nel porto.  Ad affondarli provvederemo noi !”

Quel “noi” colpì particolarmente Orietta che chiese: “chi noi, … tu ed io ????”   Forse un po’ confusa ed anche frastornata ed emozionata riprese: “certo starei con te, da quando ci siamo sposati non siamo stati molto assieme con la tua scelta di fare il militare.”  (Gigetto era militesente in quanto nipote di avo ultrasettantenne) ed anche il suo grado nella MVSN conseguito contemporaneamente al diploma di Insegnante prevedeva solo incarichi civili. Ma allo scoppio delle ostilità Ferraro era corso ad arruolarsi volontario come semplice Camicia Nera, partendo quindi per il fronte egiziano.

“Tu ed io, sissignora”, rispose Gigetto, “ed i soli a saperlo saremo tu, io, il Com.te Borghese ed il Com.te Wolk.”     E Donna Orietta, con gli occhi pieni di lacrime, abbracciò il suo Gigetto.  Lei, fedele e devota compagna, era fatta così, con tutto il suo spirito di ardimento, con tutta la sua capacità di adattamento, con il mare negli occhi e con tutta la fede riposta in quell’uomo che aveva deciso di sposare non troppi anni prima.

Da quel momento, al sorgere del sole, a Livorno, un motocarro militare -con il cassonetto chiuso-  si fermava davanti all’alloggio dei Ferraro e, col motore acceso, restava in attesa.  Dalla casa usciva uno “strano” marinaio in pantaloni e giubbotto, montava sul cassone del mezzo e l’autiere ripartiva subito per fermarsi davanti all’ingresso della piscina dell’Istituto Navale.  Il marinaio ridiscendeva dal mezzo ed entrava nella piscina vera e propria.  Il personale del Gruppo Gamma in addestramento, a quell’ora, aveva appena terminato i propri esercizi e, quindi, la struttura e la vasca erano più o meno deserti.  All’interno dello stabile, infatti, erano presenti solo Ferraro, Wolk e Baucer, nonchè il secondo di Gigetto, il marinaio Velardi. Concluso il rito di ingresso e preparazione, cominciava la trasformazione del marinaio raccolto sotto casa qualche minuto prima, ovvero Donna Orietta, che da insegnante di Educazione Fisica stava diventando una assaltatrice subacquea. Una Gamma.

In acqua Orietta è molto brava, quasi come il marito.  Dato che loro due, prima della guerra vivevano e lavoravano a Tripoli, un loro ritorno in città non avrebbe dovuto destare alcun sospetto.  E all’arrivo dell’ VIII Armata inglese in città -così almeno queste erano le intenzioni- i coniugi Ferraro sarebbero diventati una vera e propria “quinta colonna”,  ovvero di fatto dei sabotatori subacquei  che avrebbero cercato di colpire ed affondare tutte quelle  navi nemiche che si sarebbero presentate in porto. Poi, oltre alla piscina, Donna Orietta passò agli addestramenti in acque libere con i simulacri dei bauletti esplosivi.  Nel secondo mese di addestramento, quindi, di mattina in piscina: familiarizzando con le pinne, la muta in foglia di gomma e l’ARO versione Gamma e nel pomeriggio in mare a ripetere le stesse manovre della mattinata.

E la sera ?? La sera, o forse sarebbe meglio dire la notte, allenamento col marito, sia ben inteso allenamento all’azione vera e propria che rappresentava, di fatto, lo scopo di tutta l’operazione. Diventare cioè perfettamente acquatica e sincrona con Luigi, in una sorta di duo uomo/donna pesce. E questo era, nel contesto del reparto Guastatori Subacquei e sul piano prettamente femminile, una novità assoluta senza riferimenti e senza possibili termini di paragone.

Purtroppo, però, la caduta di Tripoli avvenne ben prima del previsto. Rientrare in città durante l’occupazione inglese sarebbe stato davvero impensabile, nonché pericoloso. Inoltre, Donna Orietta non aveva completato tutto il ciclo addestrativo (mancava solo quello relativo all’ impiego delle cariche esplosive vere e proprie) e quindi Gigetto partì da solo.

Al momento dell’addio Orietta accompagna Ferraro alla porta di casa dicendo  “Va’ … ora va’” e quasi lo spinge fuori dall’uscio. Gigetto capisce. Non aggiunge una parola. Le accarezza la guancia e dice soltanto “Italo lo baci tu per me, torna da lui, … ciao”. E così Gigetto partì per la Colonia ma al suo arrivo, in quel di Tripoli, le prime truppe inglesi stavano entrando nella periferia della città. Molto rocambolescamente, quindi, anche Ferraro, insieme ad altri connazionali, riuscì a riparare in Italia per il rotto della cuffia.

Si può quindi concludere questa testimonianza con la fugace immagine di due coniugi di guerra che si salutano nella speranza di ricongiungersi ancora. Donna Orietta Romano in Ferraro seguì sempre, con tutta se stessa, l’amato Gigetto sia durante gli eventi bellici sia dopo la fine delle ostilità, costantemente al fianco di quel bel ragazzone che incontrò, amò e sposò in terra africana. Ora, Donna Orietta riposa nella tomba di famiglia accanto al suo amato Gigetto in quel di  Trieste.

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